Sumikiri: recuperare il senso

Recuperare il senso di ciò che facciamo ogni giorno è un obiettivo, forse il più alto, di una disciplina marziale.

Il Fondatore dell’Aikido usava spesso il termine sumikiri (澄み切り). Un termine molto interessante, perché le due parti di cui è  composto significano “taglio netto” ma il termine nella sua interezza significa “completa serenità”. Ed è con questa accezione che Morihei Ueshiba lo utilizzava.

Una “straordinaria calma”, come la definiva suo figlio Kisshomaru, simile all’asse intorno a cui ruota una trottola. Sembra tutto immobile, ma basta un urto e tutta la forza centrifuga si irradia

Asse, centro, forza, irradiare. Termini che rappresentano bene gli elementi su cui si basa ogni disciplina marziale e in particolare l’Aikido.

Questi elementi sviluppano tre condizioni necessarie per lo sviluppo personale. 

Il lavoro sul proprio centro, sulla respirazione, sul radicamento, sulla postura e sullo spostamento del proprio asse non è altro che una presa di coscienza su chi siamo. Accettare chi siamo è il prerequisito per migliorarci.

Il lavoro sulla forza, sulla sua modulazione e sul suo utilizzo appropriato è ciò che consente al proprio centro di interagire, di manifestarsi,  di dialogare. La forza, più di tanti altri aspetti, richiede un continuo corso di grammatica espressiva.

Infine, irradiare non vuol dire altro che avere il coraggio di “essere fuori”. Di accettare di rompere il guscio caldo della propria zona di comfort e di mettere in relazione il nostro intero essere con altri.

Questi tre pilastri sono trasversali a tutte le Arti Marziali e il Budo riconosce nel conflitto uno strumento prezioso perché, attraverso gli allenamenti, i combattimenti e le varie forme, l’individuo migliori.

Un miglioramento che concettualmente parte dal sumikiri e ad un sumikiri veramente impersonato e vissuto tende.

Non è facile recuperare questo senso implicito delle discipline marziali. Non è facile perché l’industria del “self-help”, dell’auto-aiuto, ha largamente diffuso il concetto che “sei ok così come sei”.

Tra il centro sereno e immobile del sumikiri e il potenziale immobilismo sfiduciato di chi rimane fermo perché tanto “è ok così come è”, c’è una grande differenza.

Quanta frustrazione c’è quando non capiamo un esercizio, quando sbagliamo, quando non riusciamo ad eseguire una tecnica e il compagno resta immobile o, peggio, esegue una controtecnica e ci inchioda al tatami!

Eppure questi sono momenti di verità. Benedetti e rari in una vita quotidiana in cui sono spesso le maschere sociali che governano il nostro agire, personale e collettivo.

Ecco allora che diventare capaci di direzionare il nostro corpo, relazionandoci ad altri e di controllare il nostro movimento e quello altrui, diventa un esercizio costante di verità e di libertà.

Perché, in fondo, riconoscere che non siamo poi così ok come siamo, ci permette di scegliere una strada che ci insegna con strumenti umili ma concreti a prendere decisioni responsabili durante una pratica fisica e ci apre le porte a poter fare altrettanto, una volta fatta la doccia e rivestiti gli abiti civili.

Disclaimer: Foto di Anthony da Pexels

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